LIBERAZIONE: 10mila in corteo a Roma dicono no a Maroni

Riuscita ieri la sfida autorganizzata alla nuova emergenza Pacchetto
"sicurezza", 10mila in corteo a Roma dicono no a Maroni

A. D’A. L.

(Liberazione, 01/02/2009)

La rabbia e la festa: questo il clima che si respirava ieri a Roma nel
primo corteo autorganizzato contro il varo del "pacchetto sicurezza", che
approderà nell’Aula del Senato mercoledì prossimo. La rabbia che si
accumula offesa dopo offesa alla dignità delle cittadine e dei cittadini
migranti, tanto sfruttati quanto clandestinizzati dalle politiche di potere
e stigmatizzati dal razzismo che quelle politiche moltiplicano nella
società italiana. La rabbia delle lavoratrici e dei lavoratori senagalesi
che nel corteo portano la notizia della rivolta delle sorelle e dei
fratelli di Civitavecchia, dove nella mattinata di ieri un poliziotto
italiano fuori servizio ma con precedenti ha, pare «per una lite di
condominio», sparato con un fucile a pompa ad un loro connazionale,
uccidendolo. Ma anche la rabbia di quante e quanti, precarie e precari
"indigeni", hanno appreso e coltivato condivisione con la popolazione
migrante a Roma, in anni di lotte autorganizzate sui bisogni, a cominciare
da quelle per il diritto all’abitare, così come in comuni percorsi di
liberazione di desideri, in decine di spazi sociali autogestiti,
altrettanto assediati. E così pure la rabbia delle donne, delle
associazioni e delle reti femministe che denunciano ancora una volta la
strumentalizzazione patriarcale e di Stato del corpo femminile con cui si
cerca di giustificare la nuova emergenza securitaria e si sdogana l’odio
razziale.


Dall’altra parte, la festa: quella di tutta questa rabbia che trova il modo
di condividersi e di esprimersi in un comune bombardamento di senso, di
riprendersi la piazza, di diventare 10mila differenti corpi, singolari e
sociali, che dicono insieme un No liberatorio. Una festa che è una sfida
totalmente autorganizzata, da una rete cittadina orizzontale che ha
raccolto l’arco più ampio di possibile di movimenti di lotta e
associazioni di migranti e precari e studenti, di case e centri occupati e
autogestiti presenti nella sola grande metropoli italiana che è Roma. Una
festa di rivolta civile, dislocata, con un corteo che comincia a Porta
Maggiore all’ombra di quella Pantanella dove 19 anni fa la resistenza della
prima occupazione intercomunitaria inaugurò le lotte migranti in Italia; e
che finisce a Piazza Esquilino, a pochi passi da un Viminale protetto da
uno spiegamento abnorme di polizia e carabinieri in assetto antisommossa,
dopo aver attraversato il quartiere-simbolo della presenza migrante come
della costruzione delle fobie.
Nessuna bandiera di partito né sindacale: soltanto qualche bandiera di
Palestina accanto a quelle rosse senza alcun simbolo sui camion che sparano
i sound system dei centri sociali, bandiere rosse e nere della Federazione
anarchica italiana e di situazioni e individualità libertarie, e una
bandiera rastafari che sventola a centro corteo. Organizzazioni politiche
solo in fondo: Sinistra critica «del Pigneto» e a chiudere la delegazione
della Federazione romana del Prc.
Tanti striscioni, invece. Quello unitario in testa, retto da un primo
spezzone interamente di donne migranti che gridano inesauste «Libertà!»,
ammonisce: «No al pacchetto (in)sicurezza». Poi, appunto: «Attenzione,
contiene (nel senso di imprigiona, ndr ) la libertà di tutte e di tutti».
Un messaggio rilanciato sui muri dai writers, soggetto a rischio di galera
secondo le nuove norme. Mentre lungo il percorso locandine contro il
controllo finiscono incollate sulle lenti di diversi dispositivi di
videosorveglianza e vengono affissi lenzuoliche avvertono: «Occhio non
vede, cuore non duole». Costante la denuncia femminista negli speakeraggi
dei camion, dove si articola il messaggio sintetizzato dallo striscione
«La violenza sulle donne non dipende dal passaporto. La fanno gli
uomini». Donne, uomini e bimbi migranti si mescolano agli autoctoni negli
spezzoni di Action e Coordinamento di lotta per la casa. Sfilano compatti i
bengalesi di Dhuumcatu, uno striscione retto da nordafricani recita: «No
ai lager, né a Lampedusa né in Libia né in qualsiasi posto». I
senegalesi scorrono per la manifestazione cantando e ballando la loro ira,
insieme a kenyani che issano le marionette d’un Berlusconi malconcio in
bandana che sfida la statura d’un Obama boxeur.
Conclusione a tappe: davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore la
squadra rugby degli All Reds, nata nel laboratorio Acrobax, improvvisa una
partita in sfida rivendicata al tentativo di vietare le manifestazioni
«davanti ai luoghi di culto». Da un camion qualcuno ricorda che «Cristo
camminava scalzo, non con le scarpe di Prada di questo papa»: e diventa il
solo motivo di commento del postmissino sindaco Alemanno come del piddino
presidente della provincia Zingaretti. Celere a presidiare Casa Pound, da
dove i militanti neofascisti pensano bene di fare provocatoriamente
capolino, scatenando la rabbia che si sfoga in lanci di petardi e fumogeni.
Poi, per quanto la piazza d’armi inscenata da polizia e Cc lo blindi non
può proteggere il Viminale dalle vibrazioni del concerto che conclude la
prima tappa d’un nuovo ciclo di lotte. La prossima, mercoledì 4 davanti al
Senato.

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